Il Natale secondo Eve K. Sedgwick

FLUX 1 Quello che deprime delle festività natalizie – non è forse così? – è che in questo periodo dell'anno tutte le istituzioni parlano con la stessa voce. La Chiesa dice quello che deve dire. Ma anche lo Stato dice la stessa cosa: forse non con il linguaggio della teologia (anche se non c'è poi molta differenza), bensì con il linguaggio con cui parla lo Stato: i giorni di vacanza riconosciuti per legge, le lunghe vacanze scolastiche, le speciali emissioni filateliche ecc. Anche il linguaggio del commercio aggiunge la sua voce al coro, dal momento che gli acquisti dei consumatori sono programmati per concentrarsi nelle ultime settimane dell'anno, provocando fremiti di eccitazione all'indice Dow Jones legati alla "atmosfera natalizia" degli americani. I mass media, a loro volta, si accodano trionfalmente alle falangi del Natale: le riviste pompate dalla pubblicità presentano succulenti tacchini in copertina, mentre l'industria giornalistica trasforma ogni domanda in una domanda sul Natale. - Gli ostaggi saranno liberi per Natale? - In che modo quella inondazione o quella strage (con un numero indefinito di persone uccise e mutilate) hanno cambiato il Natale per quelle famiglie? E intanto la coppia di termini "famiglia/Natale" diventa sempre più tautologica: le famiglie sono costruite sempre più secondo il modello e attraverso l'immagine, ripetuta all'infinito, della festa, quest'ultima costruita a immagine della famiglia.

Alla fine non si tratta neppure di propaganda del Cristianesimo, ma di propaganda del Natale stesso. Tutti – religione, stato, capitale, ideologia, domesticità, discorsi del potere e della legittimazione – si allineano reciprocamente una volta all'anno così da formare un monolite che ci carica di infelicità. E se invece ci abituassimo a valorizzare i modi in cui i significati e le istituzioni possono essere in disaccordo gli uni con le altre? E se invece gli incroci più produttivi non fossero quelli in cui tutto ha lo stesso significato? Pensate all'entità “famiglia", uno spazio sociale compattato in cui tutti i seguenti significati dovrebbero allinearsi perfettamente l'uno con l'altro:

un cognome
una coppia di natura sessuale
un'entità giuridica fondata su un matrimonio regolato dallo Stato
un cerchio di rapporti di consanguineità
una casa
un proscenio tra "privato" e "pubblico"
un'unità economica definita da introiti e tassazioni
il sito principe di consumo economico
il sito principe di consumo culturale
un meccanismo di produzione, cura e acculturazione della prole
un meccanismo di accumulo di beni materiali nel corso delle generazioni
un insieme di routine quotidiane
un'unità all'interno di una comunità di culto
un sito di formazione patriottica

... e naturalmente l'elenco potrebbe continuare. Se guardo alla mia vita, mi rendo conto che, come forse la maggior parte delle persone, ho valorizzato e aderito ai vari elementi dell'identità familiare in modi assai diversi (ad esempio negandole ogni ruolo nella formazione religiosa, ma riversandovi un grande bisogno di affetti). Quello che nella mia vita particolare è rimasto costante, però, è il mio interesse a non permettere a troppe di queste dimensioni di allinearsi automaticamente l'una con l'altra. Mi rendo conto che l'intuizione principale che ho avuto è stata quella di riconoscere che la strategia più produttiva (intellettualmente ed emotivamente) poteva essere, tutte le volte che fosse possibile, quella piuttosto di disgiungerle l'una dall'altra, di disarticolare i vincoli - di sangue, di legge, di convivenza, di privatezza, di affetto, di mutuo soccorso - per evitare che agissero come un ingranaggio unanime nel sistema chiamato "famiglia".


(Eve K. Sedgwick, da "Queer and Now", in Tendencies 1993; trad. di Marco Pustianaz)

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