Una strana coppia di testi: il Combahee River Collective (1977) e Chandra Mohanty, "Sotto gli occhi dell'Occidente" (1986)

Quanto diversi nel linguaggio e nella modalità di comunicare questi due saggi! Una dichiarazione di intenti di un collettivo femminista nero scritto in prima persona plurale, e un saggio (un estratto striminzito, a dire il vero) intellettualmente e politicamente sofisticato, che tutt* hanno avuto estrema difficoltà a leggere e a "farsi piacere".
Perché li ho messi insieme? Perché mi sembrava che dessero due scossoni diversi a un "soggetto donna" inteso in senso universalistico da parte di un femminismo che non aveva ancora teorizzato tutta una serie di differenze "interne", o perlomeno non le aveva negoziate come dato fondamentale di ciò che dovrebbe proporsi il movimento femminista.
Così, la Dichiarazione del collettivo Combahee River rivendica una politica femminista nera che si faccia carico di una oppressione che non passa soltanto dal sessismo, ma anche dal razzismo. Nel momento in cui il femminismo non affronta la questione dell'oppressione razziale, è esso stesso di fatto razzista perché presuppone che la lotta "generale" del femminismo liberi anche le donne nere. In pratica, il privilegio "bianco" del femminismo assume una forma di "universalismo" più o meno mascherato. Ho invitato a cogliere in pieno lo scandalo di questo "manifesto", perché implica lo stesso femminismo nel pericolo concreto di mettere in atto le mosse dell'oppressione che caratterizzano l'universalismo maschile.
Nella discussione molte hanno notato la diversa politica del collettivo rispetto al separatismo. Il separatismo delle donne nere impedirebbe, secondo il collettivo Combahee, di allearsi insieme agli altri soggetti neri (uomini, donne e bambini), e in questo senso sarebbe un "sacrificio" che nessun femminismo (bianco) può chiedere. Le femministe nere chiedono la stessa considerazione per le "differenze" di razza - e la stessa presa di coscienza epistemologica e politica - che il femminismo (nella sua seconda ondata degli anni Settanta) aveva portato alla luce sul fronte della differenza sessuale (e di genere).
Si tratta di una critica che il saggio di Mohanty approfondisce e rende ancora più cruciale, nel momento in cui il femminismo implicitamente bianco e occidentale (quello del cosiddetto "Primo Mondo") viene identificato come possibile agente di "colonialismo discorsivo". Che cosa caratterizza tale colonialismo? La costruzione di un oggetto discorsivo (una categoria con tutti i suoi stereotipi) che cancella ogni eterogeneità, ogni differenza che non sia interamente compresa nel soggetto unitario che se ne fa portatore: ecco che anche il femminismo costruisce il suo "Altro", cancellato come ogni "Altro" in un sistema binario di opposizioni, di cui il primo termine è quello abilitante, mentre il secondo non ha mai la parola, né la possibilità di far contare la "propria" differenza. Ecco nascere le fantomatiche "donne del Terzo Mondo", una categoria fittizia che è semplicemente il rovesciamento in negativo di tutte le qualità che il soggetto femminista del "Primo Mondo" si auto-attribuisce.
La critica di Mohanty - ho detto al seminario - "fa male", nel senso che mette in campo tutta la complessità di una "politica delle differenze" (anche di una politica "femminista" delle differenze) che eviti di ricostituire Soggetti generali e universali che decretano quali sono le oppressioni valide e quelle relative, quali i soggetti prioritari e quali quelli "spendibili". "Fa male" perché implica che il desiderio di liberare le "altre" donne nasconde un desiderio di "potenza" che si realizza per l'appunto mediante la costruzione di un soggetto Altro inferiorizzato.
Una delle difficoltà del saggio sta nella sua concezione di potere derivato da Foucault: il potere non è qualcosa che si ha o non si ha secondo una modalità puramente oppositiva - oppressori vs oppressi - ma circola in modo discorsivo attraverso le relazioni, tra cui importantissime sono quelle epistemiche: chi ha il diritto di definire chi.
E la chiusa dell'estratto è fortemente ironica: se le femministe del "Primo Mondo" sono veramente liberate come si autorappresentano, il loro femminismo sarebbe già esaurito.
Se questo saggio costringe a una critica del liberazionismo "universalistico" (anche di quello femminista), la sua portata generativa è che inaugura la nascita di un nuovo soggetto femminista, situato, definito in modo contingente dalle connessioni delle sue differenti oppressioni e possibilità.
Del resto, se il femminismo contemporaneo è divenuto sempre più un pensiero - e una pratica - delle differenze - ogni "nuova" differenza è al tempo stesso separazione e nascita. In questo caso, la "nascita" di un femminismo post-coloniale. Molte altre cose ci sarebbero da dire sull'importanza di un femminismo non esclusivamente bianco anche nelle nostre società occidentali, investite da ondate migratorie che hanno portato "in casa" decine di migliaia di queste "donne del Terzo Mondo". Quale femminismo ne nascerà? Certamente non un semplice femminismo "filantropico" che tratti queste donne unicamente come "donne da salvare", secondo una deriva che sa di tardo-vittorianesimo.
Mi sarebbe piaciuto in alternativa leggere insieme il saggio sulla "intersezionalità" di Kimberle Crenshaw, ma non mi risulta tradotto. E' vero?

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